Tempo di lettura:
8h 30m
Editore: Corbaccio
Anno: 2006
Lingua: Italiano
Rilegatura: Rilegato
Pagine: 255 Pagine
Isbn 10: 8879727303
Isbn 13: 9788879727303
Ci sono dei verbali che registrano quello che è avvenuto a tutti gli abitanti della casa al 263 di Prinsengracht a Amsterdam, ad Anna e Margot, alla signora Frank e a Fritz Pfeffer, ai coniugi van Daan e a Otto Frank, l’unico sopravvissuto. Solo di Peter van Daan non si sa niente, si pensa che sia morto durante la marcia della morte dal campo di Auschwitz a Mauthausen nel maggio 1945. Ma, e se non fosse morto? Che cosa avrebbe fatto se fosse scampato al genocidio? E’ quello che prova ad immaginare in questo romanzo la scrittrice e giornalista americana Ellen Feldman. E la vita di Peter inizia una seconda volta quando lascia l’enorme cimitero che è diventata l’Europa ed arriva in America: a differenza di molti ebrei, non ha bisogno di modificare il suo cognome, si chiama Van Pels, ha un chiaro suono olandese, perfetto per una città che, dopotutto, ha preso il nome da Amsterdam. In una pagina del diario Anna scriveva che Peter le aveva detto che per lui sarebbe stato più semplice essere cristiano dopo la guerra, ed è su questa assunzione che si basa la storia della Feldman: sulla carta di identità di Peter non è indicata la sua religione, è finita la marchiatura nazista della J di “Jude”, la circoncisione è una pratica igienica diffusa anche tra i gentili in America, Peter rinuncia a far parte del popolo eletto. E fa strada nel mondo: grazie al suo cognome passe-partout riesce a diventare impresario edile con un socio ebreo, ha una prima storia d’amore con una ragazza ebrea che, paradossalmente, si rifiuta di sposarlo proprio perché dice di non essere ebreo, ne sposa la sorella, ha due bambine. E poi - è il 1952 - perde la voce. Nel 1952 fu pubblicato il diario di Anna Frank - ci vuole un po’ di tempo prima che Peter, in cura da uno psichiatra, metta a fuoco di aver visto quel libro tra le mani della moglie, la sera prima di perdere la voce. Abbiamo letto tanto sull’Olocausto e sulle sue vittime, sul senso di colpa dei sopravvissuti e sull’impossibilità di vivere ancora dopo Auschwitz- le pagine della Feldman affrontano il quesito della colpa da un’altra angolazione. Non c’è la domanda, ‘perché io sono vivo?’, ma piuttosto, ‘condanno i miei cari a una seconda morte se li rinnego?’. Ed è giustificato un silenzio che non accusa, per proteggere dall’orrore chi non lo ha conosciuto? La certezza di Peter di comportarsi al meglio per tutti coloro che gli sono vicini viene scossa da due episodi in apparenza marginali, dopo i quali Peter non può più tacere: il diario di Anna viene portato sul palcoscenico e adattato ad un film, e, in entrambe le versioni, c’è una scena in cui il padre di Peter ruba del pane. Suo padre non aveva mai fatto, non avrebbe mai fatto una cosa del genere: perché si deve compiacere così il basso gusto del pubblico? E, quando Peter decide di farsi rimuovere dal braccio il tatuaggio con il numero, il medico gli dice, “Il suo è un tatuaggio comune, come ce ne sono tanti”. Se proviamo un leggero disagio iniziale perché la scrittrice ridà vita non a un personaggio fittizio di romanzo ma ad una persona che è veramente vissuta non solo sulle pagine, lo superiamo presto continuando la lettura, condividendo il dilemma di Peter, contenti di aver prolungato la sua vita, anche se solo in un libro.
Dello stesso autore
Altri Drammatici
Autori che ti potrebbero interessare